Un punto di luce Questa storia comincia con un “C’era una volta”, e forse finisce con un “c’è ancora”. Non so quanto sarà lunga, né esattamente cosa ci sarà scritto, ma oggi ho provato un’emozione, un’emozione che vorrei provare a descrivere, perché è stata fantastica, per quanto semplice. A volte dimentichiamo quanta magia può esserci dentro un gesto qualsiasi, che può sembrare di poca o di nessuna importanza. Se mi avessero detto una frase simile, fino a un mese fa, l’avrei preso per ottimismo dolciastro e senza significato. La mia vita serena, priva di qualsiasi reale dolore, fortunatamente, mi è sempre sembrata una sopravvivenza. Un “tenersi a galla”, mentre gli altri vivono appieno ogni momento, ogni singola emozione. E non mi riferisco a uscite in discoteca o fumo, quelle cose non mi hanno mai interessato, sono sempre stata convinta che fossero da stupidi. Stupidi inseriti e “felici”, ma pur sempre stupidi. La felicità che sognavo, a cui aspiravo, doveva essere profonda, doveva essere magica. Doveva farmi brillare gli occhi, doveva portarmi ad urlare a tutti quanto ero serena, ma tenendo sempre una parte di questa gioia solo per me, e per chi me l’avrebbe data. Erroneamente, pensavo che questa felicità dovesse venirmi dall’esterno. Che un giorno mi sarei alzata con gli occhi stanchi, avrei aperto la porta, e me la sarei trovata davanti, la Felicità in persona, e che nulla, da allora in poi, mi avrebbe più potuto far soffrire. Un’immagine molto infantile, lo ammetto, ma che mi aiutava a piangere, a sfogare in lacrime ciò che non andava, che non mi piaceva. Sono sempre stata un’insicura, e questa mia fantasia mi dava una certezza, un obbiettivo a cui non potevo mirare, ma che prima o poi avrebbe colpito anche me, un po’ come la freccia di cupido. Questa storia comincia due anni fa, il 27 settembre, ed il 7 dicembre. Tre date, tre vite, tre momenti che in un modo o nell’altro mi hanno segnato come mai avrei pensato potessero farlo. Due anni fa, 30 aprile 2001. La macchina si mette in moto, mio padre si inoltra nel traffico serale del mio paese imbottigliato nei sensi unici, poi sfila lentamente sulla statale, e sul Grande Raccordo Anulare. Nelle orecchie il lettore cd mi propina canzoni più o meno politiche di Francesco Guccini, che ripeto mnemonicamente guardando le luci in lontananza. Sinceramente non ricordo com’ero vestita, è uno dei tanti dettagli che ho perso nella mia memoria. Poi la macchina si fermò. Maledetto traffico. Erano le 19:55, bene, lo spettacolo cominciava dopo un’ora, mio padre era sempre previdente riguardo l’orario. Mi misi, con la pazienza delle mie certezze inossidabili, ad osservare le automobili incolonnate di fianco a quella della mia famiglia, tentando di scrivere mentalmente i lineamenti del viso dei conducenti. È la cosa che mi rimane ancora più difficile, descrivere i volti. Quando vado a rileggere ciò che scrivo, mi sembra che tutti i personaggi abbiano la stessa faccia, gli stessi lineamenti, o un impasto di rosa al posto di questi. Il cd finì, così. Senza avvertire. L’orologio segnava le 21:09. Il traffico lentamente cominciava a scorrere, mentre le auto della polizia sfilavano di fianco, e la macchina protagonista dell’incidente veniva portata via. A me tutto questo non interessa, siamo in ritardo. Non è egoismo, so di non poter fare nulla per loro, e ho posto nella mia mente per straziarmi di un solo cuore, il mio. Mio padre mi impone di stare attenta. “Cerca un grande tendone, dovrebbe esserci scritto da qualche parte Gran Teatro”. Guardo dai vetri, quando in lontananza un telone che mi sembra da circo mi cattura. È enorme, sembra un parco giochi, o la casa dei balocchi trascinata via dalla favola di Pinocchio. Non c’è nessuna strada per svoltare, proseguiamo, ecco l’uscita. Torniamo indietro, ed entriamo nel parcheggio, un signore ci indica dove lasciare la macchina. Una cinquantina di metri a piedi, e siamo davanti all’entrata. Sono le 21:46, suoni confusi provengono dall’interno. Sopra il grande palazzo senza muri c’è una scritta rossa, sobria e grande, che infondeva un placido senso di tenerezza: “GRAN TEATRO”. All’interno, è sempre il rosso a dominare. Non si capisce bene perché, ma te lo senti dentro, quel rosso, che senza accecarti ti culla, sembra il cuore di un bambino appena nato che batte, sicuro e tranquillo, vicino al respiro della madre. Stavamo per entrare, quando al botteghino una signora ci avverte che lo spettacolo è iniziato da un bel po’ ormai. Spiegammo i motivi del ritardo, quell’incidente maledetto sul Raccordo, e lei gentilmente cambiò il biglietto, spostandoci allo spettacolo del giorno successivo. Un viaggio a vuoto, ma quel teatro mi sembrava tanto quello che Renato Zero cita nelle sue canzoni, il magico “tendone blu” dove faceva gli spettacoli, lui giovane progressista in una città che lo amava e o odiava insieme. Allora naturalmente, non avvertii la pace che sento adesso. Era solo una serata buttata, come tutti i miei giorni festivi. Saremmo tornati il giorno dopo, primo maggio. Festa per tutti, non per me, il giorno successivo avevo compito su Boccaccio, e dovevo ancor iniziare a studiarlo. La serata fuori casa con rientro a mezzanotte mi avrebbe di certo aiutata a saperlo meglio. Il mio cinismo lavorava. Primo maggio. Tornammo al Gran Teatro, stavolta nessun intoppo, e alle 20:03 siamo lì. Mio padre prende qualcosa al bar, io non mangio mai prima degli spettacoli, ho la nausea. Voglio solo sedermi in poltrona, tanta gente mi ha parlato bene di questo Notre Dame de Paris, e poi i musical mi piacciono, sempre che si capiscano le parole. In sala, ammiro la vastità enorme del posto, le poltrone rosse –il cui ricordo ora mi strappa un sorriso-, la gente a brulicare come formiche. Distribuiscono il programma di sala, dieci mila lire per niente, meglio di no. Le luci si abbassano, ascolto la prima canzone. O meglio, non la ascolto, sono distratta, quel posto mi mette agitazione, senza che io ne capisca il motivo. Mi concentro sulla seconda melodia, poi uno stacco, un uomo vestito di nero a “parlare”, una parte recitata-cantata, a dire la verità. Spero che non sia tutto completamente in musica, ho paura di annoiarmi. Quando “Esmeralda lo sai” arriva alle mie orecchie ho il terribile presentimento che dormirò per due ore su una poltrona rossa che tra l’altro mi metteva in ansia. Del resto, non ricordo niente. L’uomo vestito di nero, l’Arcidiacono Claudio Frollo, mi entra bene negli occhi quando si trova in primo piano, e canta “Il trovatello”. Dio, quant’ simile a Massimiliano. La posa, l’atteggiamento, il pizzetto. Il pizzetto. L’avevo amato, quel pizzetto, credevo almeno. Vent’anni più di lui, ma quello sulla scena è Massimiliano, ne ero certa. È il “Maestro” del corso di teatro della scuola, è il ragazzo che dovrebbe rendermi felice, che ha scoperto la mia esistenza con una lettera che non avrei dovuto dargli, e che da quattro mesi mi evitava, così come io evitavo lui. Mi perseguita, non è possibile, è riuscito a trovarmi anche qui. Chi diamine è, quell’attore che ha osato portare anche in teatro –il mio luogo sacro, lì dentro, io sono io, e nessun altro- il mio dolore più grande? Comincio a piangere, non smetto fino alla fine. Il musical è avvolto dalla nebbia, ricordo solo che all’uscita mi facevano male le mani per i troppi applausi, e che mi sentivo stremata, troppa magia insieme fa male. Ma allora non me ne resi conto, come mentre ascoltavo il cd masterizzato da un mio amico, come quando andai su internet a cercare il nome di quell’attore, di Massimiliano. Vittorio Matteucci.
27 settembre 2003, un’altra macchina che parte, di mio zio. Dentro ci sono anche io, che bello, rivedrò Vittorio. È dal 10 giugno 2001 che non ho il piacere di apprezzarlo dal vivo –da quando ho visto il musical per la seconda ed ultima volta-, anche se oramai la cassetta di Notre Dame si è consumata nel mio videoregistratore, e le canzoni sono diventate il mio modo di parlare. Sinceramente non so cosa mi aspetta. Penso a tanta gente ammassata –è la sera della notte bianca, Roma è illuminata a festa, un groviglio inestricabile di macchine-, a Vittorio lontano, alla sua voce da diavolo paradisiaco. Sono incuriosita da questa anteprima della Tosca, sapevo che lui vi avrebbe partecipato, voglio vedere com’è. Non avevo mai pensato all’idea di andarla a vedere, quando invece era così ovvio. Chissà perché poi. Una fila enorme, io e le mie cugine che ci intrufoliamo, poi solo un’attesa che sembrava dovesse durare in eterno. Mio zio comincia a smaniare, ed io ad essere visibilmente imbarazzata… li ho trascinati in un posto di cui né io né loro sappiamo niente, sono già le 22:30, i cellulari non prendono e mia cugina aspetta le 23 per chiamare un amico e sentire una delle sue canzoni preferite di un concerto di Marco Masini… vorrei sotterrarmi, che ci faccio lì? Una donna in costume –che poi scoprirò essere Iskra Menarini- ci spiega la trama di questa Tosca, ci invita gentilmente a non spingere per andare di sopra, l’anteprima comincia da lì. Aspetta un po’ di silenzio, poi inizia a cantare, in un playback ben fatto. La canzone non è delle migliori, la melodia mi ricorda lo squallore a cui ho assistito vedendo “I dieci comandamenti”, e qualche altra parte mi sembra troppo simile a Notre Dame. Sono pronta ad ucciderlo, questo musical, prima che venga al mondo, nulla può né deve intralciare Notre Dame. Saliamo al primo piano, c’è gente davanti, non vedo bene. Mi giro per parlare un po’ con le mie cuginette… poi una voce squarcia l’aria. Un istante dilatato in mille anni, e mi volto, mentre sinuose note penetranti mi sibilano nell’orecchio. Vittorio. Vittorio. Vittorio. Cazzo, quant’è vicino. Quattro metri da me al massimo. Non sto capendo un’accidenti della canzone, provo a concentrarmi, inutile. Che è successo al pizzetto?! Ora gli contorna completamente la bocca, la stessa che ho sognato, per tante notti, a volte sovrapponendola a quella di Massimiliano, ma da quasi un anno non è più così. Dio, quanto sta bene. Sembra Zeus. E il teatro, a recitazione, sono il suo Olimpo. La scena si fa interessante, lui tenta di possedere lei. Nella mente ho “Un mattino ballavi”, la mia canzone preferita, la sua canzone preferita, di Notre Dame ovviamente. Mia cugina mi stringe forte la mano, a me sembra che il mondo si sia fermato, e solo lui –solo il suo corpo e le sue mosse, Massimiliano, poi ancora Vittorio, a rubarsi la scena, secondo dopo secondo, dov’è Frollo? quello non è Frollo, si muove, si agita, è umano, quasi la bacia, non sento più le gambe- rimane padrone dell’universo. La scena finisce, lui prende Manuela –Tosca- da un lato e una ballerina dall’altro, e giuda l’inchino. Mi sono accorta solo dopo che in quello sta la sua grandezza. Mi passa affianco, mi perdo nel mare blu del suo trucco sudato, rimango immobile, impietrita. Mai avrei pensato di potergli essere così vicina, mai nella mia vita. Mia cugina vede che si infila in una porta, e mi trascina lì davanti, il mio stato di incoscienza sembra non avere fine. Una ragazza di colore –di cui ora vorrei tanto conoscere il nome, per ringraziarla- mi guarda, dà un’occhiata dentro, poi fa un sorriso strano, come per dire “lo so, ti capisco, è troppo per tutti”. “Vittorio… qui c’è qualcuno che ti cerca” Lui esce, mi tende la mano, il mio braccio risponde. Ricordo ogni singola parola, nessuna importante o vitale, ma quelle voglio tenerle per me, e per me sola. Lui certamente non le ricorda, ed è meglio così, è come sapere di essere stati nei sogni di qualcuno, un sogno che questo qualcuno non si ricorda di aver fatto. Insieme alle sue parole, la dolcezza di quella ragazza. “Ehy, stai tranquilla, non ci svenire, ok?” “Ci provo…” Il suo sorriso, ora che ci penso, assomigliava un po’ a quello di Vittorio.
7 dicembre 2003. Il resoconto di ciò che è successo è su internet, da qualche parte. Per chi volesse leggerlo e non l’ha fatto. Non so cosa mi aspettavo di trovare, ma tutto è stato completamente sorprendente, e come mai avrei pensato che uscendo da lì mi sarebbe mancato Lalo, e Claudio –come dimenticare quel maglione? non so dire cosa avesse di speciale, ma a ripensarci mi sembra quasi di piangere-, così non avrei mai pensato di non fare la stessa figura di ragazzina intontita di fronte a Vittorio, quello che a tutti gli effetti è il mio ideale artistico e professionale –anche umano, se lo conoscessi, per il momento, ha il carattere che gli ho creato io, forse un po’ troppo perfetto per essere vero-. Lo ammetto, un po’ la parte della ragazzina infatuata è venuta fuori lo stesso… ma tutto era diverso, quel giorno, io avevo 25 anni, sembravo quasi sicura di me, la gente mi guardava sorridendo, convinta più di quanto io non lo fossi che il mio posto era lì, e che avrei scritto, di quel giorno, e che avrei scritto, per la mia vita, ed in tutto il mio futuro. Troppa gente sconosciuta quel giorno mi ha dato –consciamente o meno- la sua fiducia. Ho finito per crederci anch’io. Così, ora scrivo, o almeno ci provo con più convinzione, e se non riesco oggi, sarà per la prossima volta, sarà domani. Mentre racconto, penso a Gloria, a quel tecnico di cui vorrei tanto sapere il nome, a due ballerini che mi hanno guardata distratti mentre provavano due piroette, ed io scrivevo una poesia per Vittorio e Gloria. Penso a lui, istrione, alla fine –che lui voglia o no, col carattere che gli ho dato e che un po’ mi assomiglia- mio mentore. Grazie a lui, ho letto City, il libro che rileggerei mille volte per la sua bellezza senza tempo. Grazie a lui, ho letto i libri di Baricco che ancora non conoscevo. Grazie a lui, o meglio grazie a chi glielo ha regalato per i suoi 40 anni, a chi ha scattato la foto, e ad un mio amico, Marco, che mi ha consigliato vivamente di leggerlo, ho letto Illusioni di Bach. Grazie a lui, ho conosciuto Gloria, per la quale non voglio spendere più una sola parola, perché non servirebbe. Grazie a lui, ora ho un’amica che non avrei mai pensato di avere. Non dirò il suo nome, ma con la sua finta serietà, con il suo approccio diffidente e quasi disinteressato, con la sua fiducia centellinata grammo dopo grammo, sto scoprendo i miei limiti, e le mie potenzialità. Ed il fatto di esserle almeno un po’ vicina mi riempie di gioia, anche perché mi avvicina al mondo che lei sa voglio sia il mio mondo. A uno dei punti di luce di quel mondo luminoso dall’esterno ma scuro da vicino, Grazie. Valeria
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