Amore disperatoTorna a Racconti

Capitolo I

Tosca abbandonò la sala nello scroscio degli applausi, mentre il sipario si chiudeva sulle note ancora in diffusione per un bellissimo effetto acustico d’eco. Si struccò in fretta, e lasciò il suo camerino, era stanca, voleva andare a casa. La sua mente era ancora sul palco, fortunatamente, ed i pensieri lontani da lei.
La carrozza procedeva a sbalzi sulla strada sterrata, e la compagnia –due ragazzotti alquanto brilli che avevano passato la serata a fischiare il suo seno- non era delle migliori. Salutò cordialmente, col sorriso falso che anni di palcoscenico le avevano insegnato, entrò nel suo appartamento, e si preparò per la notte.
L’umidità le scorreva nelle vene, e di lì a poco, a farle compagnia sarebbero arrivati i suoi tormenti: il papa, i francesi, Mario. Mentre si toglieva il cappotto –bordi di pelliccia e pailettes a impreziosire una seta raffinatissima- ascoltava i rumori del suo cuore malato d’amore e contraddizioni, che perfide la accompagnarono nel letto disfatto dei suoi incubi. Pregando Dio, quella sera, menzionò più volte il nome del suo amante, e tra un sussurro e l’altro si poteva avvertire il sentore che non ci sarebbe stata pace in quella notte, né nelle seguenti, e forse mai più.
La mia voce crebbe allora nella sua mente, alzò un grido e un canto, a presagio dell’inevitabilità del destino. Ma nessuno volle darmi ascolto allora, e le mie parole caddero nel buio di un ricordo perso. Solo in seguito, ognuno a suo modo, e a suo tempo, tutti compresero il disegno provvidenziale in cui il malvagio Dio francese aveva inserito le loro anime.
Le allodole erano ancora sveglie quando il cannone di Castel Sant’Angelo urlò la sua rabbia. Tosca sobbalzò nel letto e nell’attimo esatto in cui aprì gli occhi, vide il fuggevole spettro di Mario passargli nella mente.
“Il cannone ha sparato… forse… è scappato Gesù… Dio, lascia dormire il papa… caccia i francesi, e lascia vivo il mio amore…”
Le frasi cadevano nel buio assoluto della stanza, quasi un fruscio di vento abbandonato dalle finestre socchiuse.
Quel frastuono, quella notte, segnò l’inizio, e la fine. Il genere umano, che era stato in grado di squarciare il silenzio incontaminato della luna con suo rombo di fuoco, destò la rabbia di Dio. E per ristabilire la pace sconfitta, tutti dovevano essere messi a tacere, buoni e cattivi, in una calma che solo la morte è in grado di portare.

 

Capitolo II

Correvano senza pace, conigli braccati da cacciatori e lupi, cani spregevoli di una guerra che non avrebbe dovuto essere la loro.
Il sudore imperlava la giovane fronte del Console, vent’anni rubati all’amore e alla gioia di vivere. Il corpo malnutrito si muoveva dinoccolato e affaticato, mentre la voce gridava ordini imprecisi di paura agli altri evasi.
Non si era reso conto di come fosse uscito di prigione. Improvvisamente, si era trovato a correre, correre a perdifiato, e dietro di lui altri, non tutti, gli esponenti della Repubblica Romana. Si accorse che i soldati li seguivano, ed erano vicini. Si accorse che probabilmente sarebbe morto quella notte. Le gambe spinsero ancora il corpo in avanti, ancora e ancora, mentre i suoi amici cadevano ad uno ad uno tra il rumore lacero delle baionette, le lacrime gli solcavano il volto.
Scavalcarono il muro di cinta, al di là di quell’ultimo ostacolo, c’era la libertà, o quello che ne era rimasto. Gli spari assunsero nella sua mente un unico suono indistinto, i corpi si riversarono a terra, esanimi. Lui, a cavallo sul muro –bersaglio facile, doveva sbrigarsi, di qua la morte coi suoi, di là la vita, solo- rimaneva immobile, un secondo che fu eterno. Poi la vigliaccheria che la sua giovane età gli regalava lo strattonò con forza, e di nuovo a correre, fra le strade di Roma, a sentire l’aria negli occhi freddi di pianto, a sentire il cuore ancora battere.
Corse fin quando il dolore della pallottola che gli aveva accarezzato il fianco non divenne più grande di quello per la morte dei suoi compagni. Allora arrancò fino alla chiesa più vicina, fermandosi sulla soglia per nominare le ultime vittime di quell’assurda lotta.

 

Capitolo III

Gli occhi della madonna fissavano suadenti il viso del loro creatore, che si perdeva in essi e giocava coi colori della luce per dar sfogo alla sua arte.
Un uomo sulla trentina imperava nella sala, i capelli lunghi abbastanza da legarli sulla nuca, qualche riccio ribelle incollato sulla fronte sporca di colore. La gioventù gli si era fermata nel viso, che conservava la spensieratezza e l’incoscienza tipica dei ragazzi. Aveva gli occhi penetranti, che scrutavano dietro la superficie, per dipingere i cuori, e spogliavano ogni donna, perché dei ragazzi aveva conservato la voglia di osare, sempre un po’ di più. Ma il tempo, e le ultime convulse vicende politiche che avevano visto il crollo della Repubblica Romana e i tumulti francesi di Napoleone lo avevano responsabilizzato, ed ora come mai prima avvertiva il bisogno di sicurezza, pace, di lasciare i vent’anni che l’avevano accompagnato da sempre ed abbandonarsi all’età adulta.
Sentì un rumore, qualcuno era entrato in Sacrestia. Tossì, per dar segno all’intruso della sua presenza, e per imporgli di tacere. Seguì un altro rumore, quasi impercettibile, poi un altro ancora.
“Chi c’è?”
“Eh? Chi? Io? Sono il sacrestano…” la voce impacciata, rotta da silenzi sudati d’impazienza e sorpresa.
“Buongiorno padre” la voce fluida, quasi un tutt’uno col pennello che tracciava un’altra abbondante macchia colorata sulla tela.
“…stavo… facevo pulizie, ecco…”
“Con il dovuto rispetto…”
“…grazie signore…”
“….e ringraziando sempre il Signore…”
“…sempre sia lodato!”
“…la pregherei di fare piano.. sto lavorando”
“…ehm… scusi… cantavo al Signore Dio Padre Onnipotente…a bassa voce…”
“Già, ma non stavate facendo piano…”
“…scusi… i canti di gioia a Cristo si levano alti, senza che le nostre orecchie se ne accorgano!”
“Bhè, le mie sì, evidentemente…”
Infastidito da quella presenza, tornò a guardare il quadro.
“Magnifico. Assolutamente magnifico” bisbigliò fra sé, con gesto compiaciuto.
Così perso in quel dipinto, non si accorse che il prete era ancora lì. E senza l’aria da prete, per giunta. La fronte ampia, il viso stempiato, due occhi da falco. Mani tozze, grette, da contadino allevato in fretta, e un simbolo nero tatuato sul polso, seminascosto dalla tonaca.
Si guardava intorno con aria circospetta, aspettando la distrazione del pittore per poter curiosare ovunque.
Si chiamava Spoletta, ma questo Cavaradossi non lo sapeva. L’uomo era ancora intento a ritoccare la sua opera, perso nelle sue fantasie, mentre la fedele spia di Scarpia continuava a cercare chi sa cosa. Ad un certo punto, con un saluto frettoloso e schivo, uscì dalla stanza, evidentemente le sue ricerche erano state vane.
Rimaneva Mario, incantato, come Dio al settimo giorno della creazione, con il giardino dell’Eden di fronte, e l’orgoglio trionfante in petto.
Un rumore. L’uomo, come svegliato da un paradisiaco sogno d’amore, urlò inferocito, girandosi di scatto.
“…vi avevo detto di far piano, diavolo!!”.
Nessuno. Non si era reso conto che il “sacrestano” era scivolato via, con passo più felpato di come era entrato.
“Sarà stato un gatto…”
Altro rumore.
“Si può sapere chi c’è qui?”
Silenzio.
“Esci fuori! Nemico o amico, vieni allo scoperto, così che io possa difendermi da te, o accoglierti a braccia aperte…”
Silenzio.
“E se sei una donna, allora entra, perché mancavi solo tu per completare la mia felicità!”
Rovinosamente, Angelotti crollò a terra, ai piedi di Cavaradossi.
“Il Console della Repubblica Romana, Angelotti!…Da dove venite, chi vi ha ridotto così?”
“Arrivo da Castel Sant’Angelo, dove ero rinchiuso assieme ai miei compagni… morti! E che la mia salvezza possa dare pace anche alle loro anime… -la voce si affievolì un istante, accompagnata da un lievissimo gemito- …sono stato ferito, Scarpia ha mandato i suoi uomini a cercarmi. Quell’uomo mi odia, signore, mi vuole morto!”
Cavaradossi continuava a fissarlo come un fantasma, combattuto tra la volontà di aiutare un esponente della Libertà che anche lui sognava, e la paura delle conseguenze del suo gesto. Istanti a durare anni, poi la sua voce scelse la strada che la sua mente non poteva accettare.
“…sono a vostra disposizione, Console…”
“…ho bisogno di cibo, acqua… e un posto dove nascondermi, subito, per sfuggire gli scagnozzi del Barone!”
“….certo, vedrò come aiutarvi, ma…”
In Chiesa, quel giorno, non c’era pace, né clemenza divina. I passi alteri dei tacchi di Tosca avanzavano in quella direzione.
“È Tosca… nascondetevi Console, nascondetevi! È una donna… la mia donna! Intelligente e bellissima, ma… gelosa! Non fatevi trovare qui, nascondetevi!”
Angelotti, senza parlare, si mosse faticosamente, raggiungendo una tenda dietro cui celare la sua presenza.
Tosca entrò, illuminando la stanza. Era bellissima. I lineamenti mediterranei del volto contornavano due profondi occhi scuri, che brillavano di riflessi verdi appena li attraversava la luce. I capelli lunghi e  lisci fin sotto la spalla ondeggiavano lievi, premurosi di non turbare la magia del portamento della donna, che si muoveva sicura nel bell’abito nero, mentre sulle labbra carnose splendeva un rossetto leggero.
Gli occhi del pittore si posarono incantati sul seno di lei, sui suoi fianchi, sulle gambe lasciate scoperte dalla gonna che sfiorava timida il ginocchio.
“Mario… Mario!”
“Sono qui!”
“Mario… con chi parlavi?”
“…con nessuno, Tosca… nessuno!”
“Mario, ti ho sentito, parlavi!”
“Eh già… pregavo! …ad alta voce!”
“Tu pregare? Non ti ho mai sentito pregare.. ad alta voce poi!”
“… ehm…te l’ho detto, è così!”
“Tu non mi ami, Mario… c’era una donna, qui, non è vero?”
“Ma no, no, Tosca!! Non c’era nessuno! Ero solo… solo, col mio quadro!”
Solo allora Tosca si accorse del ritratto, e di quegli occhi fissi sulla sua gelosia. La donna dipinta era di una bellezza sorprendente: il volto pieno di luce, i capelli silenziosamente raccolti dietro la nuca, il naso delicato, le labbra sottili e disegnate, tutto perfetto.
La cantante ci mise poco a trovare in lei rabbia e sospetti verso l’amante.
“Di chi è quel ritratto? Quegli occhi… sembra che mi stiano guardando! O stanno guardando te! È lei la donna che c’era qui, Mario, confessa!”
“Ma no, no Tosca… lei è solo la mia musa… ma tu, tu sola sei la donna che amo!!”
“…non ho sentito…”
Allora Cavaradossi le si avvicinò, cingendola da dietro la schiena con le braccia, e accarezzandole il viso con le mani incrostate di colore. Sussurrò piano, a rivelare il segreto che sapevano entrambi.
“Ti amo”.
Le sillabe scivolarono negli occhi di Tosca, che si girò su sé stessa, e le labbra dei due, oramai così vicine, si sfiorarono. Infinite parole si dissero in quel solo istante, tutte quelle che non avrebbero mai più avuto occasione di raccontarsi.
Appena la gelosia tornò ad impossessarsi della mente della donna, i loro visi si allontanarono.
“…ma io ti ho sentito Mario… c’era qualcuno qui! Tu menti!”
L’uomo, stremato, finì col cedere.
“È vero, Tosca… è vero. Ecco chi nascondo. Console! Console!”
Angelotti uscì allo scoperto, senza più affanno, ma vulnerabile anche solo ad uno sguardo. La cantante, scossa, indietreggiò.
“Questo… questo è l’uomo che tutti stanno cercando, il traditore!! Trama contro Scarpia… contro il papa!”
Il ragazzo guardò Cavaradossi, negli occhi un fremito di paura.
“No, no amore! È solo un ragazzo… sconfitto dalla schiavitù e dalla prigione… e quant’è vero che ti amo, proteggerò lui ed il suo onore!”
Tosca si lasciò convincere senza protestare, chiunque avesse visto Angelotti in quello stato, non avrebbe potuto far altro che avere pietà di lui, ed aiutarlo.
I capelli castani, lunghi, bagnati dal sudore e dal sangue, gli contornavano pietosi il viso scarno. Gli zigomi erano leggermente tinti di rosso, ricordo dello scontro con qualche guardia. La camicia bianca, oramai lacera e sporca, gli lasciava scoperto il petto, e parte del ventre, mentre sulla sinistra si apriva il mare violaceo della ferita non curata. Le labbra spaccate dalla sete, e due solchi trasparenti a pulirgli il volto, là dove le erano passate le lacrime. Unica cosa ancora viva in quel viso, erano gli occhi. Mori e liberi, accarezzati dalle sopracciglia sottili, e carichi di sogni.
Mario si fece giurare dalla donna fedeltà, e concordarono sul da farsi.
Cavaradossi e Angelotti sarebbero scappati nella villa in campagna del pittore, e Tosca non ne avrebbe fatto parola con nessuno, anche la vita di Mario era in pericolo, da quel momento.
Un bacio, l’ultimo che si sarebbero scambiati, e poi, ognuno a compiere il suo destino.

 

 

 

 

 

 

Capitolo IV

Tosca si inginocchiò, fece il segno della Croce, e cominciò a pregare. Non si accorse della presenza di Scarpia, silenzioso e maligno, che le si avvicinava con passo sicuro.
Capitano delle Guardie Pontificie, era un uomo che aveva tutto. Tutto, tranne lei, la donna che diceva di amare. Il suono della parola amore risultava come un riso sardonico sulle labbra di quell’uomo, malvagio per vocazione. Non credo abbia mai compiuto un gesto umano, o semplicemente sano, nella sua vita. Aveva trent’anni allora, due occhi blu intensi, provocatori e profondi come gli oceani di perversione che riuscivano a raggiungere, capelli nero pece, ed un grottesco filo di barba attorno alla bocca, le labbra livide, mai abituate alla dolcezza di un bacio. Roma tremava al suo passaggio. E che il suo umore fosse dei migliori o il più scuro che avesse mai attraversato la sua strada, la sua presenza era accompagnata da morte, violenza, follia.
Se qualcuno avesse provato ad amare quel male, forse le cose non sarebbero andate come il fato aveva già scritto. E forse l’irrazionalità che stava dietro ad ogni suo gesto fu l’unica intelligenza che era riuscita a capirlo.
Oramai era abbastanza vicino da poter udire le sue parole.
“Ave Maria, graziae plena…” Tosca sentì il calore di un corpo vicino al suo, si girò di scatto.
“Buonasera Signore…”
“Oh, mi scusi… non volevo certo disturbarla... venivo a pregare…”
“Anche io stavo pregando…”
Scarpia non riusciva a distinguere se stava parlando con lei, o con sé stesso. “Ci si commuove vedendola all’altare…”
“Signore… faccia piano… solo nel silenzio il cuore è in grado di parlare…”
“Oh, no, mia signora… il silenzio è nemico della preghiera... nemico dell’amore! Le stanze si riempiono di demoni, fantasmi dell’inferno, che sussurrando si divertono ad insinuare tormenti nei cuori celesti come il suo…”
La donna fece nuovamente il segno della croce, si mise in piedi, e tentò di allontanarsi velocemente, ma senza dar segno di voler mancare di rispetto. Scarpia era folle, ma lucido. Le corse dietro, era lui il demone che avrebbe persuaso la sua mente, il silenzio sarebbe stato più efficace, se somministrato con altrettante parole.
“Ho avuto il piacere di osservare il quadro del Cavalier Cavaradossi… molto bello, davvero! Quasi vivo!”
“È ancora da finire, Signore… un lavoro senza importanza, di cui Mario si occupa così, nel tempo libero…”
“Da finire? Allora, la modella dovrà tornare, a suo piacere… e due occhi così appassionati sapranno come muoversi, nel silenzio concentrato del Cavaliere che dipinge… così come le loro labbra, le loro mani!”
La voce di Tosca si incrinò, sull’orlo del pianto, ancora in bilico tra la fedeltà di Mario, e le false certezze che le offriva Scarpia. Bastò poco per farla cedere.
“Io parlo nel vostro interesse, Signora… sia amicizia o amore il sentimento che mi lega a voi, è questo che mi spinge a parlare, a dirvi la verità… non sarebbe mio dovere, ma lo diventa, se riguarda la vostra gioia!”
“Risparmiatevi, non ce n’è bisogno… torno a pregare, e per favore, vorrei rimanere sola…”
Scarpia annuì, e rimase in disparte, a veder lavorare l’ansia e l’angoscia sui fianchi della bella cantante, che inginocchiata perdeva colore e lucidità, ammaliata dai dubbi atroci che il Barone aveva insinuato nella sua mente.
…e se fosse… Mario… Mario… lo sento, mi ha tradito… mi ha tradito!
…scava nei suoi occhi, ed entragli nelle vene, fino a farle male, ed il suo dolore sarà il piacere che mi farà stringere il suo corpo… gelosia, lavoratrice assidua, non abbandonarla… sento in  bocca le lacrime che versa ed i brividi sul mio corpo, il veleno fa effetto su entrambi, la sua morte sarà la mia vita, i suoi tormenti la mia amara gioia!…
…io lo amo, lo amo, ma lo sento, è distante, non gli importa, mi odia e non capisce… mi odia, mi tradisce!…
Tosca si alzò piangendo, e scappò via dalla chiesa, che risuonava dei suoi singhiozzi, e dei suoi tacchi sul pavimento. Scarpia non ebbe il tempo di seguirla, tanto il cuore gli si era bloccato nello stupore, colpito dalla naturalezza con la quale aveva violentato la vulnerabilità della donna.
…se ne è andata… Tosca… Tosca… è fuggita…ed io rimango solo… solo e abbandonato… solo e disperato…

 

Capitolo V

Scarpia rientrò nel palazzo papale che era notte fonda. Quanto gelo gli aveva invaso il corpo quella notte, non so dirlo. Quanta rabbia e violenza aveva riversato sul letto delle donne che avevano accompagnato la sua serata, è facilmente intuibile.
Davanti a Tosca, la bella cantante stretta nel vestito di scena che le modellava il seno e le curve dei fianchi, il Barone non aveva difese. E così sprofondava, tornando ogni notte in quei bordelli, a farsi dare dolore da cinque o sei sconosciute, che per lo più morivano prima di poter raccontare di aver sentito gemere il terribile Scarpia, e piangere il nome di Tosca.
Era spossato, e nei pensieri nient’altro che il suo nome, ripetuto mille volte in mille schermate nere, rosso come il fuoco che gli bruciava l’anima e ardeva qualsiasi emozione gli penetrasse il corpo. Spoletta scese dalla carrozza, dietro di lui, poi entrambi, in un silenzio che sapeva di confessione, si trovarono nella camera da letto di Scarpia, con il fedele servitore che appoggiava i soprabiti su una sedia.
“Signore… bella nottata, questa!” lo stile falsamente spavaldo di Spoletta inframmezzava le cadenze grette dell’indecenza con la paura anche solo di sfiorare l’argomento che affannava tanto il Barone.
“Nottata? È tutta qui la notte, Spoletta, e si diverte a mangiarmi il fegato… perché mi hai trascinato via? C’era la fila, di fronte a quella porta, e tutte, tutte chiedevano di me! E le avrei soddisfatte tutte…” Cattiveria e piacere si mescolavano con lussuria nel suo ghigno, mentre l’eccitazione gli cresceva nei pantaloni.
“Ma sì, Signore… ne sono certo! Solo… Roma è grande, ma le voci corrono… in molti l’hanno vista, stanotte… e non si dica mai che il Capitano delle Guardie Pontificie si abbassi a prender piacere da qualche puttana!” 
“Sono opere di bene, Spoletta… feccia cancellata dalla terra, che adesso scalderà il cuore di qualche diavolo dell’inferno… Ma il mio di cuore già c’è, in quell’inferno, e quel paradiso ingannevole ha anche un nome… Tosca!”
“Ma Signore… è solo una donna… -vide gli occhi di Scarpia accendersi d’ira- …bellissima, sicuramente!! Con fascino, eleganza, portamento… ma mille donne d’aspetto migliore sognano anche solo di vederla da lontano!!”
“E quante di queste non sono puttane, interessate al mio potere, più che al mio corpo, vogliose di piacere come può esserlo un maiale di cibo!”
Era inutile. Spoletta conosceva Scarpia più di quanto egli stesso si conoscesse, e nessuna parola avrebbe mutato la rabbia feroce di quell’uomo, non quella notte.
“Allora… allora la faccia sua, Signore, Tosca è una bella donna, intelligente, non potrà rifiutare un uomo come lei!”
“Non è con la violenza che otterrò il suo amore, stupido! Forse… forse è meglio amare, e farsi amare… forse dà più gioia, e mi placherà l’anima… non è vero, non è vero!! L’odio è l’unica passione, la violenza l’unico modo di avere successo, e di vincere, la spada che trafigge il cuore e coagula il sangue, quella è gioia, quella è soddisfazione!! Ma se non posso avere Tosca… se il prezzo da pagare è la sua bellezza, la carne profumata… i suoi baci… solo la mia morte vedo nei suoi baci, quando la morte altrui è la mia vita! Che senso ha tutto questo? Avvicinarmi a lei, con la forza… ma è con la dolcezza dei suo occhi che mi distrugge, che mi fa male… com’è possibile? È così bella… e non la intacca la mia superbia, la mia fama… vive per Mario, il pittore… quanta stupida follia c’è nell’amare la femminilità di un pittore, che pensa solo alle sue madonne, ai suoi ritratti, e che non brama di possederla come me, che vivo di notte invocando il suo nome, e passo i giorni a sognarla!!”
Le imprecazioni gelide di Scarpia furono interrotte dal frastuono di una finestra rotta. Schegge di vetro riempivano il pavimento, mentre il sasso che le aveva provocate rotolava ancora. Come destato da un sogno, si affacciò alla finestra, e vide nel basso della piazza una banda di ubriachi. Con due pietre in una mano e la bottiglia di vino praticamente vuota nell’altra, il ragazzo che sembrava essere a capo di quella marmaglia invocava la pietà e la clemenza della statua di Pasquino, al centro della piazza, tra risa sguaiate, impeccabilmente ubriache.
“Spoletta… -la voce calma, tranquilla, penetrante e calda, sembrava sussurrasse frasi d’amore- arresta quel teppista!! –isteria nel timbro, che aveva raggiunto gli acuti che tanto amava sentire da Tosca-“.
Il fedele servitore sparì subito, precipitandosi per le scale, mentre il Barone ristabiliva la quiete nella sua mente malata.
Come il suo umore cambiasse nel giro di qualche istante, era un miracolo a cui bisognava assistere per ritenerlo vero. Il respiro era affannato, ma si stava normalizzando.
Si diresse nella grande sala dove padroneggiava un enorme tavolo di mogano lucido, e due imponenti poltrone agli opposti, gli piaceva accogliere lì le sue vittime.
Quando il ragazzo –capelli corti, occhi lucidi d’alcool e fumo nel cervello- venne trascinato nella stanza, il Barone aveva ripreso il controllo di sé, o meglio, la follia era tornata a governare stabilmente nella sua testa.
“Sai cosa faccio alla gente che disturba le mie notti, ragazzo?”
“…scusi… scusi Signore… non volevamo… era così buio! È stato Pasquino, Pasquino!”
“Le statue non lasciano pietre, e se anche lo facessero, non si disturberebbero di adoperare la notte per i loro scherzi… la notte è per gli ubriachi e gli innamorati, i primi immersi nella perversione del vino, i secondi in quella del sesso! Ed in entrambi i casi, condannabili!”
“…no… no, Signore… e poi… io so qualcosa che voi non sapete…”. Balbettava, ma sembrava stesse dicendo qualcosa di sensato, e Scarpia sapeva riconoscere il momento esatto in cui la paura porta l’uomo a svelare le più nascoste delle verità, per aver salva la vita.
“Ah, sì? E cosa sapreste, voi, che può interessarmi?”
“Voi cercate Angelotti…”
“Sapete dove quel traditore nasconde la sua carcassa?”
“No… no…”
“…allora muori, bastar…”
“…ma conosco il nome di chi lo protegge! Li ho visti, a Sant’Andrea, ieri mattina, all’alba… il Console in persona!”
“Con chi?”
Il ragazzo, a fatica, stava riprendendo lucidità. Strani giochi può fare la morte, quando si avvicina.
“Il nome contro la mia vita, Signore…”
Ma Scarpia sapeva anche questo.
“Bhè… mi sembra uno scambio equo… dalla tua morte non traggo vantaggio, ma da quel nome sì! Spoletta… è un buon prezzo, mi pare…”
Questi annuì deciso.
“…bene… hai la mia parola, ragazzo… dammi quel nome, e ti augurerò una felice notte, per quanto poca ne rimanga da passare!”
“Il pittore, quel pittore… Cavaradossi, Mario!”
“Il Cavalier Cavaradossi?” –lampi volteggiarono nella stanza assieme alle parole quasi urlate di Scarpia, che intercettò lo sguardo di Spoletta, e poi i pensieri che la sua mente doveva ancora formulare-
“…ora... posso andare, Signore... le ho detto ciò che voleva!”
“…ma certo… vai pure... che sarà mai, una finestra rotta…”
Il ragazzo si inchinò, sorrise, volteggiò su sé stesso, e prese a camminare verso la porta.
Anche Scarpia sorrise, mosse il collo, come se una donna glielo stesse accarezzando di baci. Mise la mano in tasca, e ne estrasse una pistola. La fece scorrere lentamente sulla coscia, vicino l’inguine, poi sul ventre, e quando sentì il metallo toccargli il volto, puntò il ragazzo, e sparò.
L’aria vibrò del suo piacere, l’odore del sangue sparso inondò di silenzio la sala. Spoletta si avvicinò al cadavere, e lo trascinò a fatica lontano dalla vista del Barone, i corpi morti lo infastidivano.
Tornò ansimante, e si avvicinò a Scarpia, che lo chiamava lentamente con un gesto della mano.
“Comandi, Eccellenza…”
Un sibilo disumano gli percorse le labbra, e tra i brividi della sua perversione pronunciò lieve il nome di Mario.
“…Cavaradossi… portami qui Cavadarossi… lacero ed in catene… ma vivo, che possa vederlo cosciente… che possa fargli male io…”

 

Capitolo VI

Spoletta si fermò di fronte all’ingresso della Chiesa, dietro di lui un manipolo di poliziotti. In un istante, si ricordò quante volte aveva spinto quella porta, ed era entrato nella grande sala imbavagliata di fede, con il grande crocefisso ad imperare, ed le prove del coro vicino l’organo. C’era stato un tempo in cui quella vita gli piaceva, in cui Dio ancora esisteva. Era un bambino, ma la gioia insensata che gli procurava l’idea di un padre eterno e mistico a proteggere la sua infanzia, adesso tornava a fargli male, logorando di rabbia l’odio che si trascinava dentro.
Aveva dieci anni quando scoprì nell’alcool la cura miracolosa ai suoi dubbi, alle pulsioni d’amore, alla morte inspiegabile delle persone che amava. Non passò molto tempo prima che il parroco scoprì le bottiglie vuote e gli spinelli nascosti in Sacrestia, e lo cacciasse profetizzando maledizioni sul ragazzo che sghignazzando bestemmiava il fumo appena assunto.
A questo pensiero, assieme alla pena per la sua esistenza, tornò il presente, l’ira, e l’unico desiderio di arrestare Cavaradossi, portarlo a Scarpia, e vederlo morire tra le torture che il Barone gli avrebbe inferto.
“Aspettatemi qui” ordinò deciso, anche se nella voce una lieve inflessione roca presupponeva lacrime mai versate.
Entrò, niente prove di coro, ma l’odore delle vedove in tacita preghiera, e l’incenso blasfemo a disegnare l’aria. Arrivò alla Sacrestia, Mario dipingeva.
Dipingeva e cantava, leggero sui suoi colori, e gli occhi del ritratto vivi a piangere emozioni sulla stanza, dall’alto. Il pittore aveva immaginato questo ritratto come la meraviglia dell’uomo di fronte alla bellezza, e con questo pensiero aveva costruito le sue dimensioni, proponendo una tela alta tre metri, e lunga uno e mezzo. Così, sopra una piattaforma rialzata da terra, Cavaradossi rifiniva le ciglia scure della donna, che sembrava cospargere di luce tutto ciò che incrociava.
Spoletta rimase incantato, e ancora non visto si immobilizzò su quell’immagine, Dio che creava il paradiso, un Dio reale, tangibile, la prova di come il sublime esiste, di contro ai mille motivi che avevano spinto l’uomo ad allontanarsi dalla fede, da un Dio che non esisteva.
Si stupì della sua reazione, scosse la testa, quasi imbarazzato di aver pensato e poi scacciato quei sogni, che a lui non era concesso fare. Spalancò la porta facendo rumore, in modo che Mario lo sentisse senza bisogno di parlare.
“Che succede?” Gli occhi interrogativi del pittore osservarono la stanza, la fonte corrugata, tensione e preoccupazione, ma non paura.
“Ho un mandato d’arresto, signore, Scarpia ha ordinato la sua cattura. Alto tradimento.”
“Tradimento? Cosa dite? Non ho tradito mai nessuno, a parte amanti insoddisfatte, signore…”
“Venga con me, non renda le cose difficili”
“Non ho intenzione di cedere ai ricatti di quell’infame… né ora, né mai!”
Spoletta si avvicinò, lo prese per un braccio, poi la scena si fece convulsa, un pugno forse, del sangue sul volto.
“Entrate! Voi, entrate!” tossì Spoletta, la stanza si riempì, Mario cadde.
La spia gli andò davanti, il pittore in ginocchio, entrambi col viso macchiato di ferite, ma solo su quello di Spoletta segni di rancore.
Cavaradossi si piegò in silenzio sotto il calcio dell’uomo, che gli accarezzò il petto, e rimase immobile, mentre questo lo picchiava, travolto da una rabbia ceca e senza senso, fin quando i poliziotti dovettero tener fermo anche lui, per evitare che lo uccidesse.
“Lasciatemi!” urlò ansimante “Andiamo via da qui… Al palazzo, presto!!”
Gli uomini uscirono in un silenzio spaventato, il sangue si coagulava sul pavimento. Spoletta crollò in ginocchio, assaporò la dolce macchia rossastra sulle dita chiudendo per un istante gli occhi stanchi, poi si pulì la mano sui pantaloni, alzandosi, ed uscì.
In Chiesa, iniziavano le prove del coro.

 

Capitolo VII

Quando Tosca entrava in una stanza, era impossibile non notare con quanto fascino ed eleganza si muovesse il suo corpo ed il suo volto, contratto in una compostezza spontanea e lineare. Scarpia se ne stupiva ogni volta, ed anche adesso, che i pensieri si confondevano nella sua mente malata, non poté non notarlo.
“Ero di sotto a cantare, Signore… quando mi hanno detto che mi cercava… a dir la verità, mi hanno ordinato di venire qui, ed al più presto…”
“Non esistono comandi ed ordini se è il cuore a volerli, e se sono spinti dall’amore!”
“L’Amore è affar mio, Signore… ma ditemi… cosa volete?”
“L’amore è anche affar mio, se mi annega il sorriso e la gioia!!” Scarpia non capiva come mai potesse avere tutto, ma non lei. E la rabbia gli saliva in corpo mista all’impotenza di non poter cambiare le cose, e nulla acquistava più senso logico, ma solo la folle espressione di chi non può far niente. Nel pronunciare quelle poche parole, si era alzato dalla sedia, l’aveva sollevata sopra la sua testa, e adesso rimaneva in precario equilibrio, appoggiata alle sue spalle, in attesa di un gesto qualsiasi che sbloccasse la situazione.
Tosca lo guardò spaesata, poi qualcosa si mosse nella mente dell’uomo, la sedia scivolò di nuovo a terra, e lui si sedette, tentando di riprendere un controllo che non aveva, infastidito dalle sue stesse azioni.
“Signore… di sotto il pubblico mi aspetta…”
“Allora non facciamolo aspettare troppo! Basta un nome, un luogo, anche non detto ma fatto capire, perché so che la colpa non è vostra, e non sarà tradimento, perché chi non ha colpa, non può neanche tradire…”
“Non capisco cosa dite, Signore… nomi, luoghi? Il mondo è pieno di luoghi, esistono montagne, vallate, spiagge, fiumi bellissimi in cui specchiarsi, e ritrovare il volto della persona amata! Dove volete che vi porti?…”
“Amore e sangue si mescolano nelle vostre parole… per la mia sofferenza!”
Fu in quel momento che il mondo scomparve agli occhi del Barone, e rimase solo il corpo di Tosca, infinitamente desiderato, così vicino, solo a pochi metri dal suo. Si mosse verso di lei, lottando con qualche demone nella sua mente, e la colse da dietro, accarezzando lieve le sue spalle di seta.
“Signore… onore e virtù non vi mancano… di sotto mi aspettano… ed io non so come potrei aiutarvi… Signore libertà… umanità… e la mia gratitudine… per voi, e per curare il dolore che dite vi attanaglia!!”
“Libertà, gratitudine? Non è questa la definizione dell’amore! E sai che è questo il sentimento che mi lega a te…”
“Ma Signore…”
“Amore non è una parola sola… è corpi che si sfiorano, è baci…” Parole e azioni gli si mescolavano in testa, mentre le mani indagavano i fianchi di lei, imprigionata dal terrore e dalla presa ferrea dell’uomo, che con la sua forza la stregava. Si muoveva convulso, quasi potesse raggiungere il sogno da troppo tempo desiderato, e trovandosi ora con il viso di Tosca di fronte, sentì irrefrenabile la voglia di possederla, non esisteva altro.
“…è scambio di posizioni… sospiri… respiri incalzanti, affannosi…”
“Signore, che dite!”
“…è mani gelide sul corpo, da perlustrare palmo a palmo, lenzuola sporche e al contempo profumate, per poi lasciar piovere un cielo di parole a consolazione del silenzio, è una notte intensa, e senza fine, nella quale trovarsi ancora, felici, e non desiderare mai l’alba!!”
Si scoprì in ginocchio, a baciare i fianchi sinuosi della donna, che si scansò veloce, diabolicamente attratta da quella passione ma fedele al suo uomo, a Mario.
“Cosa volete, Signore, cosa volete da me?”
“Il posto non lo so, il nome posso dirvelo… Angelotti. Traditore amico dei francesi, nemico del Papa… -le parole diventarono lance, coltelli, ed odio- nemico mio…”
“Non so nulla di lui… credetemi! Un nome solo conosco, ed è quello dell’uomo che amo… Mario!”
“Un uomo da proteggere, come si farebbe con un bambino! E allora se è vero che l’amate, proteggetelo, perché il Console lo tiene in pugno, ed è causa per lui di smarrimento, artefice di chissà quali tormenti!”
“…vi prego Signore… lasciatemi andare… il cuore mi si riempie di domande, di confusione…”
“Vediamo se riusciamo a schiarire questo cuore, che si dichiara innamorato ma non lo dimostra! Spoletta… portami qui Cavaradossi, che io possa interrogarlo… subito!!”
La voce di Tosca inciampò nella paura, emettendo un rauco suono metallico. Solo al terzo tentativo riuscì a pronunciare il nome di Mario, che col volto intriso di sangue veniva trascinato davanti al Barone.
“Tosca… che fai qui?”
“Mario… Mario…” la donna piangeva. Lamenti e dolore su quelle labbra che avevano apprezzato la dolcezza dei baci del pittore, e le sinuose forme della musica. Adesso tremavano scomposte, perdendo colore  e bellezza, il viso si consumava nell’angoscia di una fine oramai prevedibile. Non esisteva espressione sul volto di Cavaradossi, ma lei avvertiva il battito del suo cuore rallentare e morire, disfatto da una battaglia persa in partenza, alla quale lei aveva acconsentito. Piangeva, Tosca, lacrimava una sofferenza infinita dagli occhi stanchi, che si soffermavano sadici ad immobilizzare il corpo stremato di Mario nella memoria, e che ora la costringevano in ginocchio, a sussurrare “no” disfatti e privi di suono.
Scarpia osservava lo spettacolo che gli si mostrava di fronte, soddisfatto del trattamento riservato al suo rivale, ma disperato d’impotenza se il suo sguardo incrociava il corpo dimenticato in un angolo di Tosca.
Non capiva. Avrebbe potuto avvicinarsi con la dolcezza di miele che lei stessa gli aveva insegnato attraverso i suoi gesti, e passarle una mano fra i capelli, accarezzarle il viso, abbracciarla, ma sapeva che lei l’avrebbe allontanato imprecando, e continuando ad inneggiare il nome di Mario, del traditore.
La folle gioia di poter infierire su Cavaradossi però annebbiava qualsiasi cosa, ed il pensiero che il dolore del pittore sarebbe stato quello della stessa Tosca non riuscì neanche a lambire la sua mente.
“Cavaliere…”
Il prigioniero continuava a fissare la donna amata, a ripeterle sussurrando frasi di una bellezza infinita, inframmezzate con quelle raccomandazioni che non sarebbero servite a niente.
“Tosca… non dire una parola… dolce angelo della mia vita, per l’amore che ci lega, non parlare… abbi fiducia in me, abbi coraggio… non lasciarti sfuggire nulla, ti prego, raccontami il tuo amore con il silenzio!”
“Cavaliere…” Scarpia lanciò un’occhiata sarcastica a Mario, questi gli gettò uno sguardo di disprezzo e odio, senza degnarlo di una risposta.
“Persone al di sopra di ogni sospetto…”
“…i nomi!!”
“…l’hanno vista parlare, all’alba a Sant’Andrea, con Angelotti… assassino, terrorista…”
“…le prove!”
“Suvvia, non facciamo le cose più grandi di quel che sono!! …la città è in fermento… vuole l’evaso…”
“…non so di che cosa parlate…”
“Cavaliere, davanti a Tosca!”
“…non nominatela!”
“Non obbligatemi… ci sono modi e mezzi per strapparvi la verità… non costringetemi!!”
“Le vostre minacce non mi spaventano, Barone… conosco i vostri metodi, sento le catene che mi stringono i polsi, ed ho già apprezzato l’ospitalità dei vostri scagnozzi… ma non so niente, non posso aiutarvi!!”
“Siete uno sciocco, Cavaliere! Mentire così spudoratamente, e costringermi a fare ciò che non voglio, per di più davanti alla donna che sostenete di amare!”
“Ti ho detto di non nominarla, infame!!”
“Spoletta… fai entrare il boia!! Tiragli fuori quello che sa, ora!!”
Il servitore uscì rapido, sulle labbra un sorriso compiaciuto. Scarpia rideva sussurrando frasi incomprensibili, con lo sguardo diviso tra il sangue che invadeva onesto il viso di Cavaradossi, e il volto distrutto di Tosca, che continuava a piangere e pregare chissà quale Dio.
Un uomo alto, dalle spalle robuste e la faccia disegnata dalle cicatrici fece il suo ingresso nella sala, in mano una catena, mentre legata alla cintura dei pantaloni pendeva una frusta perfezionata con invisibili chiodi sulla punta. Si diresse a passo sicuro verso il prigioniero, e lo salutò a suo modo: Mario rimase col ventre contratto dal dolore, a mezz’aria, sostenuto da robuste corde che lo inchiodavano in piedi, a sfiorare appena il suolo.
Scarpia non amava porre le domande, preferiva osservare la sofferenza dei volti, il panico, il terrore. Così Spoletta iniziò l’interrogatorio, con una pena che sfiorava il disprezzo e la pietà.
“Dov’eri alle nove ieri sera, e chi c’era con te?”
Il pittore cercò di raccogliere le forze, e riprender fiato, parlare sembrava uno sforzo al di sopra delle sue possibilità.
“Lavoravo… al mio quadro! Ogni tanto magari, mi sono soffermato a riflettere, a pensare… quando mai è stato un reato!!”
“Ti hanno visto, insieme ad Angelotti!”
“Non è vero!”
Ad un cenno del Barone il boia usò gli arnesi che aveva. Cavaradossi urlò –il primo urlo, che tranciò il cuore di Tosca e avvelenò di piacere quello di Scarpia-, sputò sangue davanti a sé.
Spoletta riprese, come se non fosse accaduto nulla.
“Allora… dov’eri? E dove nascondi il fuggitivo? Rispondi!”
Assieme al sangue, tossì un’imprecazione, che il Barone additò come rivolta a lui. Fu allora che prese la parola, suscitando la sorpresa dei presenti, non amava interrompere il suo piacere del dolore altrui con le parole.
“Ti hanno sentito in molti… Parlavi contro il Papa, contro il clero, contro Dio, contro di me!!”
“È falso!! Io non inganno alle spalle, non mi prendo gioco dei valori umani, li rispetto! Ricorda bene, Scarpia, io non sono come te!”
Imprecò, ordinando con un gesto che il boia proseguisse.
Il corpo di Mario non reagiva più ormai. Subiva i colpi senza accennare di sentirli, in un pietoso stato di semi-incoscienza.
Una guardia entrò senza essere annunciata, gridando a squarciagola, le frasi sconnesse dall’affanno.
“Napoleone è vivo!! È vivo!! Ha vinto la battaglia di Marengo!!”
“Vivo?! Ci avevano assicurato della sua morte, avevo mandato io stesso a controllare che l’informazione fosse fondata!! Com’è possibile?!”
“È così, Signore… ha vinto la battaglia di Marengo!! Gli Austriaci sono in fuga!”
Cavaradossi sembrò rinascere. Il suo corpo contratto riacquistò flessibilità e forma, gli occhi pieni di passione e orgoglio, il sangue scintillava sui suoi lineamenti, quasi fosse un fregio, e non il simbolo dell’odio.
“È così, vi abbiamo sconfitto! Andate a dirlo, al vostro Papa corrotto, che Napoleone ha vinto, ora e sempre, per la libertà, contro di te!!”
“Cosa?!” Scarpia si alzò, Spoletta lo trattenne con forza, dando l’ordine al boia di fare ciò che le mani del Barone, in virtù della sua posizione di giusto, non potevano. Ma il pittore non avvertiva più nulla, la sua Anima era diventata invincibile, e non importa quante ferite avesse il suo corpo, non c’era più niente che potesse fermarlo. Solo a volte smetteva di parlare, tossiva sangue e riprendeva fiato, a colpire con una lama ben più affilata lo sguardo furioso di Scarpia.
“Hai capito bene, infame! Non sei che un bastardo, sconfitto dalla Repubblica, e morirai schiacciato insieme a tutti quelli come te, Napoleone sta arrivando!! Sento di nuovo la vita nelle mie vene, vita che è Amore, e Libertà… tutto ciò che non puoi più toglierci, e che è nostro di diritto!!”
Il Barone, liberatosi con difficoltà dalla presa ferrea di Spoletta, urlò ordini incomprensibili al boia, che furono presto tradotti in azioni.
Mario non parlava più. Gli occhi chiusi, assenti, nel gorgoglio spaesato del suo respiro stanco, scosso dai calci, dalla violenza dell’ira.
Tosca nel frattempo aveva ripreso lucidità, tramutata in speranza alla notizia della vincita di Napoleone, poi di nuovo in dolore: il re francese non era lì, ed in qualsiasi momento sarebbe arrivato, per il suo amore sarebbe stato troppo tardi.
“Basta!! Basta… Angelotti… è nascosto nel pozzo del giardino… nel pozzo…”
Il boia si fermò, la donna si precipitò sopra Cavaradossi, che trovò solo la forza per sussurrarle contro il tradimento ignobile che aveva compiuto. Poi svenne di nuovo, mentre le guardie uscivano portandolo via.
“Presto, portatemi Angelotti, vivo!!”. Tutti si precipitarono fuori, Spoletta fece segno ad alcuni di seguirlo, dovevano portare il fuggitivo a palazzo prima di dell’alba.

 

Capitolo VIII

La notte spandeva i suoi richiami d’amore nelle strade fredde, il manipolo di soldati frantumava l’aria di miele col rumore sordo delle spade a battergli sulla divisa sporca. Spoletta vide Angelotti da lontano, fece segno agli altri di attendere, e si spinse in avanti, per avvisare della sua presenza. Il Console sussultò, gli occhi semichiusi dalla stanchezza e dalla luca fioca della luna.
“Chi è? Cavaliere… siete voi?”
“Non tentate di scappare, sarebbe inutile… siete in arresto, Signore, il Barone Scarpia vi attende per interrogarvi…”
“State lontano! Non vi sarà dato merito di avermi trovato, se mi porterete al vostro capo morto…”
L’uomo tornò indietro, diede ordine ai soldati di disporsi lì intorno, nascosti nel giardino, e di non ascoltare la loro conversazione.
“È così bella questa notte… non lasciatevi morire, Signore… almeno fin quando non spunterà l’alba… seguitemi senza opporvi…”
“Non vedete che non riesco a camminare? La stanchezza e le ferite sono più forti di me… e mi parlate di vita e di morte? Sono due opposti che non mi riguardano più, non per come li intendete voi, Signore!”
“Che volete dire con questo?”
“Che la vita senza Libertà è morte, e la morta per onore, o per ottenere la Libertà, è da augurare a tutti più che un’inutile sopravvivenza in catene!”
“Queste sono solo parole, Console… ma non è di parole che si vive! Guardatevi: vent’anni, e una vita che finisce… come si può parlare di libertà e gioire di una morte avuta prima di conoscere cos’è la vita?”
“Meglio morire così, subito, che vivere un giorno di più per subire la prigionia di Scarpia!”
“Ho pietà di voi, Signore… piangete i vostri pochi anni, perché la loro fine non è dovuta al Barone, ma alle vostre scelte!”
“Scelte che farei e rifarei mille volte! Ma non capisci? La Libertà… Libertà… chiedilo ai tuoi figli cos’è la Libertà, chiedilo alle persone rinchiuse nei sotterranei del castello di Scarpia, chiedilo a loro! E vedrai che nessuno più di loro potrà descriverti quale maestosa aquila senza rivali sia la Libertà…”
“Figli… voi, voi potreste essere mio figlio… quello che non ho avuto mai, e il cui pianto mi rimbomba nella testa tutte le sere…”
“Se esiste ancora in voi un po’ di quell’amore che non avete dato ai vostri figli, datelo a me ora, porgendomi la vostra pistola… che io possa uccidermi qui, subito, e non dare a Scarpia la soddisfazione di avermi tra le sue mani!!”
Spoletta rimase immobile, stupito dal coraggio inumano di un semplice ragazzo, e combattuto tra la paura che da sempre aveva nei confronti del Barone, e la possibilità di fare, almeno una volta nella sua vita senza significato, ciò che era giusto. Chiuse gli occhi, cercando in fondo al buio della sua conoscenza un segno, e trovando solo i volti delle persone a cui aveva sottratto la vita in tutti quegli anni.
Si mise la mano in tasca, prese la sua pistola, e appoggiò la sua mano su quella di Angelotti. Ma non ebbe il coraggio di lasciare che un ragazzo si uccidesse da solo, la grandezza di quel gesto lo avrebbe fatto impazzire, paragonata con la vigliaccheria della sua esistenza.
Portò la pistola alla tempia del Console, mentre con l’altra mano gli copriva gli occhi.
Lo sparò soffocò il suo rumore in un sommesso gemito, quasi Dio volesse passare sotto silenzio almeno quella morte.

 

Capitolo IX

Nella sala erano rimasti Scarpia e Tosca. Il primo in preda alla rabbia ed al furore, la seconda inchiodata ad una sedia, immobile tra le lacrime.
“Cavaradossi è condannato… è un traditore, l’hanno ascoltato tutti! Ci sarebbe solo un modo per evitargli la morte… certo un inganno, ma facile e sicuro…”
“Il prezzo, Signore… in modo tale che io possa aggiungervi la mia vita, e molto di più!!”
“Tosca… io ti desidero…” sussurrò le parole, come se dirle lo facesse vergognare di sé. Lei non riuscì a sentirlo, e ripeté la domanda.
“Il prezzo!!”
“Amore e morte non hanno prezzo, signora… Tosca, io ti desidero… -ancora una volta erano sussurri, ma lei riuscì a capirne il senso- basterebbe una notte, una sola notte… ed il vostro caro pittore sarebbe salvo…”
La donna non sembrò spaventata, né disgustata dalla proposta di Scarpia. I suoi occhi valutavano con scrupolosa lucidità le alternative, senza lasciare spazio a nessun sentimento che non fosse l’amore per l’incolumità di Cavaradossi.
“Voi chiedete… ma Mario… anche se per una notte, e anche se solo per la sua salvezza…  non capirebbe… lo farei morire… morire!!”
“Signora, arriva per tutti un giorno in cui morire… devi soltanto decidere quando sarà per lui… se domani, o in un futuro lontano!!”
Dopo aver parlato, si mosse lieve, osservando il suo corpo avvicinarsi al bell’abito di scena della cantante. Sentì il suo petto poggiarsi piano sulla schiena della donna, che prima sussultò –non si era accorta della presenza del Barone alle sue spalle- poi si abbandonò timorosa ad un abbraccio.
Scarpia prese a baciarle il collo. Labbra fredde contro il tenero velluto della sua pelle, che indugiavano qualche secondo, rapite dalla magia incontenibile di quella carne. Lei era scossa da intensi e piccolissimi brividi, che le facevano apprezzare il dolce gusto della perversione che animava quell’uomo.
Un tempo infinito trascorse in quei pochi istanti, quanto era vicina la bella bocca di Tosca… solo qualche centimetro a dividere due cuori così lontani, che sembrava quasi potessero sfiorarsi ai due opposti.
Poi nella mente della donna il fugace e autoritario ricordo di Cavaradossi a marchiarle a fuoco la mente, le azioni. Fece qualche passo avanti, tremante nella sua insicura determinazione, poi si voltò a guardare il Barone, il cui volto rimaneva nel limbo distratto delle paure umane.
“Non posso… non posso farlo, Signore, andate via!”
L’uomo scosse la testa con forza, prese a camminare nervosamente, l’impotenza avvelenava i suoi respiri.
“Com’è possibile che un uomo solo, già morto, sia ancora più fortunato di me? Cos’ha di tanto speciale il suo distratto amore da bambino, che non capisce la sola vera simbiosi di possessione e amore? Perché in un solo sguardo riesce ad ottenere quello che io desidero con tutto me stesso, e per cui sarei disposto a diventare l’opposto di ciò che sono?”
“Lui ha quello che non avete voi, Signore!! Lealtà, fiducia… al di sopra dell’amore ci sono i sentimenti che lo compongono, la libertà, la dolcezza, gli sguardi ed i sorrisi che voi non conoscete!! Lui è il mio uomo, Signore… il mio uomo… è amico dei francesi, disprezza il Papa, e vorrebbe conquistare ogni donna… ma è sempre da me che ritorna… da me… a riempirsi il cuore e donarmi il suo! In molti sono convinti di conoscerlo, ma io sola custodisco i suoi segreti più grandi, i suoi dolori e le sue gioie, incatenate alla mia anima per sempre… e nessuno potrà mai spezzare queste catene… mai!!”
Scarpia urlò furioso, dagli occhi ludici sgorgò il sangue di una lacrima che la donna non notò. Respirò a fondo, calmò la voce, e persuadendo sé stesso che avrebbe ottenuto ciò che voleva iniziò a parlare: aveva sperimentato molte volte come l’amore renda stupidi.
“È condannato, Signora… sarà giustiziato all’alba… ma per mio comando le pallottole saranno a salve…”
“A salve?”
“Non verrà mai ammazzato… Come ho detto è un trucco, ma ho avuto occasione di provare altre volte la sua efficacia, riavrai il tuo Mario – sputò disprezzo ed odio assieme a quel nome- come nuovo, a sussurrarti disgustose parole nel letto!”
“Non voglio fidarmi di te… e se qualcosa non funziona? Se i fucili sparassero davvero? Lo perderei… e nel mio letto troverei un cadavere, invece che l’uomo che amo!”
“E se invece sopravvive?”
“Voglio avere delle garanzie, un salvacondotto!”
“Per lasciare Roma…”
“Per allontanarmi il più possibile dai vostri occhi e dall’orrore che si consuma in questa città!!”
“…mi darai il tuo amore…”
“Non chiamate amore ciò che proviene dall’odio, Signore!! Scrivete,  e presto!!”
“Si autorizza il qui presente Cavalier Cavaradossi a lasciare Roma alla volta di Civitavecchia…”
“Non dimenticate qualcosa, Signore?”
“…assieme alla Signora Tosca Floria, e per sempre!” Le parole gli si sfumarono nelle tempie, mentre quel “per sempre” faceva eco negli abissi scuri del suo cervello.
Firmò il foglio su cui aveva scritto, e lo arrotolò nella sua mano.
“Ecco qui, il tuo salvacondotto… dopo stanotte, Roma per te non sarà che un lontano ricordo! Intanto le nostre anime si fonderanno assieme, nell’orrore del peccato più dannatamente divino che possa esistere… L’ho notato fin dal primo nostro incontro… il tuo corpo, i tuoi gesti, tutto di te è intriso di perversione… Satana ha posseduto il tuo corpo prima che lo faccia io stanotte!”.
“Canaglia, va via!!”
“Tu non esisti… sei solo il diavolo, venuto a bruciarmi l’anima, ma queste fiamme mi daranno il piacere del loro calore, prima di uccidermi!!”
Il Barone era di fronte a lei, le sue mani le perlustravano violente il corpo, ed i baci intrisi di una qualche dolcezza che la donna aveva avvertito prima, adesso le si ripresentavano come la squallida pretesa di un desiderio morboso.
Spinta dalla paura e dal disgusto, Tosca si liberò dalla stretta di Scarpia, e gli sputò sul viso. L’uomo indietreggiò di qualche passo, sorrise sardonico, si passò un dito sulle labbra e assaporò la sua saliva socchiudendo lieve gli occhi, poi, con la calma del vincitore, bloccò Tosca, che tentava invano di scappar via.
Si avvicinò sinuoso al suo collo, sussurrandole nell’orecchio sinistro, con il respiro spezzato dall’eccitazione e dalla frenesia.
“Lascia che io entri dentro il tuo corpo… apri la tua bocca ai miei baci… stanotte sei mia!!”
“No, Signore, mai! Mario… Mario ti perderei… ti perderò comunque, qualsiasi cosa faccia!! Per quanto grande sia l’amore che mi lega a te, per quanto la mia anima voglia solo la tua salvezza, tu non capiresti… e passeresti il resto della vita dannandoti e odiandomi!”
“Basta!! Il tuo Mario non è qui ora! Non ti salverà, e tu non salverai lui se questa notte non si farà a modo mio!! Vieni qui, dammi le tue labbra!!”
Tosca si allontanò di qualche passo, ma non abbastanza velocemente. Urlò.
“Andate via da qui!!”
Scarpia non sentiva più nulla oramai, tranne i suoi occhi che pulsavano, e le sue mani che scoprivano il corpo della donna. La scaraventò sul tavolo, poi di gettò su di lei, a bloccarle i movimenti con tutto sé stesso, e morderle il collo, il seno.
Nella penombra dell’alba che nasceva, l’amante di Cavaradossi strappò ai suoi muscoli un ultimo sforzo, che spinse il Barone giù dal legno mogano del tavolo. Ciò che successe dopo è confuso nei miei ricordi, una donna a proteggere sé stessa ed il suo uomo, ed un potente incatenato alla perversione che non aveva mai avuto niente da perdere.
Si ritrovarono in piedi, due metri l’uno dall’altra, tra le mani di lei il tagliacarte con il quale era stato preparato il foglio di via per il pittore, in quelle di lui quello stesso salvacondotto.
L’uomo sorrise, forse per la prima volta nella sua vita in modo sincero, era stanco di lottare per qualcosa che non avrebbe mai ottenuto se non con la violenza. Impose ancora una volta alla donna di arrendersi, con l’autorità di una supplica, poi le corse fra le braccia, incontrando la punta del tagliacarte a trafiggerlo. Ma gettandosi su di lei, sfiorò le sue labbra, un istante senza tempo in cui si rese conto che non era mai stato felice.
Poi crollò a terra, macchiato da un sorriso colmo di speranze, e bagnato dalle lacrime di terrore di Tosca, che sporca di sangue gli strappò dalle mani il salvacondotto, sputò cattiveria contro l’uomo, per poi fare un rapido segno della croce e lasciare la sala. Mario stava per essere fucilato, e lei doveva avvertirlo che il loro amore era salvo, finalmente.

 

Capitolo X

L’aria era fredda, la brina si condensava sulle foglie umide del prato, mentre il sole squarciava l’aria con pochi deboli raggi, sottili come le urla dei ribelli appena ritrovata la libertà. La montagna nascondeva il disco caldo, il carro di Febo aveva da poco spronato i cavalli a partire.
Anche i fucili erano gelidi, rimasti fuori in cortile, uno accanto a l’altro, a scontare le morti provocate nell’arco del giorno trascorso. Quando i soldati li impugnarono nuovamente, i suoni metallici degli oggetti rimbalzarono nelle tempie di Mario, che trascinava i suoi passi sospinto brutalmente da un prete che non aveva voluto confessarlo.
Lo fecero accostare al muro, circondato da guardie, mentre i tiratori riscaldavano e preparavano i fucili al loro compito. Con la lucidità impossibile dei condannati a morte, Cavaradossi pregava. Non credeva in Dio, e certamente non si era avvicinato alla fede come vile tentativo di salvarsi in una vita oltre la morte. Ma ascoltando attentamente le sue parole –lamenti sussurrati al mare che disgregava le sue onde sulla sabbia, in lontananza- ho udito più volte un nome, quello di Tosca.
Amore mio… sento ancora tra le labbra il sapore dei tuo baci, il sale intenso delle notti… sei ancora qui, il tuo corpo a scivolare nella mia mano, il tuo respiro a rubare il mio… quando ti ho persa? perché sei ancora qui, ti vedo nei miei occhi! Ricordo ogni cosa di te, dei nostri incontri, della tua gelosia pazza e tenera al contempo… impazzivo guardandoti, tutto di te era Amore, e mi chiamava implorando di assaggiarlo, di bere alla sua tavola! Ma perché parlo al passato? Tosca… ti sento, sei qui… vattene ora, che tu non mi veda morire… ho paura… dove sei, amore mio, dove?
Tosca uscì di corsa dal palazzo, gli occhi lucidi ed affannati nel respiro tremante. Vide il pittore da lontano, inginocchiato di spalle ad un muro invecchiato dalla morte, io che ho visto dentro al suo cuore e letto nei suoi pensieri, so che c’erano lacrime su quel volto, come su quello della cantante, e che ognuno conosceva la sofferenza atroce che stava subendo l’altro.
Lui, un uomo sul cui letto era passata gran parte della nobiltà di Roma, lei, una bellissima cantante devota a Dio e alla gelosia. Ma la trama del loro amore era fitta, inestricabile, tanto sottile quanto robusta, e nulla mai avrebbe diviso i loro cuori, nati in simbiosi e separati dal destino avverso, dagli eventi, o da Dio, non lo so. La mia arte diventa fumo negli occhi quando ogni ragionamento perde logica e rimane solo un orizzonte di crudeltà senza fine.
Tosca si avvicinò prudente, aspettando che i soldati fossero talmente tanto impegnati a preparare i loro strumenti di morte che allentassero la guardia sul prigioniero.
“Mario…”
Il pittore spalancò gli occhi lucidi, si voltò prima da una parte -dall’altra- in cerca di risposte, poi brontolò un sussurro, un’imprecazione a sé stesso e alle sue orecchie maledette, che spandevano ancora attorno a lui la voce inesistente della donna amata.
“Mario… non voltarti, fermo!”
Adesso Cavaradossi era sicuro, l’aveva sentita davvero!
“Tosca? Tosca… dove sei?”
“Sono qui, Mario… ma non voltarti, ascoltami piuttosto!”
“Questo è un miracolo… rivederti... ascoltare di nuovo la tua voce!! Ma adesso va via, che i soldati non ti vedano qui… scappa!”
“Ascoltami! Ho qui un salvacondotto… firmato da Scarpia in persona! Ce ne andremo, Mario, lontano da Roma, lontano da qui!! I soldati spareranno, ma le pallottole saranno a salve… fai finta di morire, e poi… via, verso la libertà!”
“Amore mio, ma com’è possibile? Scarpia ci lascia andare? Cosa gli hai dato, in cambio?”
“In cambio? Niente… -il timbro vocale della donna scese di qualche tonalità, come se stesse pregando, e nelle parole chiedesse perdono al suo Dio- il Barone, è vero, ha tentato di possedermi… ma quando si è avvicinato, io l’ho ucciso… non farà più del male a nessuno, ora!”
“Amore, se tutto questo è vero… siamo liberi, siamo salvi!! Ma adesso nasconditi, i soldati stanno tornando…”
Tosca fece per allontanarsi, poi tornò indietro, e le loro Anime si sfiorarono in un bacio.
“Luce dei miei occhi…”
Le ultime parole di Mario suonarono come un addio, e Tosca non poté non piangere, inchiodata vicino al corpo dell’uomo.
I soldati la videro e si avvicinarono, trascinandola lontano ed ascoltando i suoi sussurri –preghiere, o imprecazioni?-, poi tornarono indietro, aspettando il cenno per sparare.
Una guardia con più gradi sulla divisa alzò il braccio –Mario chiuse stretti gli occhi-, lo tenne sospeso a fatica qualche secondo, per poi farlo ripiombare sul fianco.
Sei colpi di fucile, che divennero uno solo, -gli occhi del pittore si rilassarono, rimanendo chiusi-, il rantolo di un respiro spezzato.
Poi ad uno ad uno tutti rientrarono nel palazzo, solo Cavaradossi a gelare nel terreno, e Tosca.
“Mario… i soldati vanno via! Aspetta ancora un minuto… ecco, sono andati via tutti! Andiamo amore, andiamocene da qui!!”
Il vento soffocava il silenzio, il sole si alzava lento, quasi a beffarsi del dolore umano.
La donna si avvicinò al pittore, un raggio di luce gli invadeva il petto tinto di sangue e odio.
Un solo urlo, rauco e sordo come lo sparo di quei fucili che le avevano tolto la vita assieme a quella che avevano strappato a Cavaradossi, e il pianto convulso dell’impotenza.
“Mario… svegliati… perché il tuo cuore non batte più? Amore della mia vita, alzati… baciami ancora, ti prego… il mio cuore è grande da dare vita a entrambi… vivi! Senza di te, non sono niente… non conto niente… anche il mio battito si spegne nel tuo, ora… dove sei, Amore mio? Perché non sei qui, con me? Ti amo… non lasciarmi…”
Prese tra le braccia la testa dell’uomo, e dondolò per lui una straziante ninna nanna, che accompagnasse entrambi in un mondo più felice, nel quale non sarebbero mai stati divisi, mai più.
Poi si alzò –negli occhi solo un pensiero, Mario-, entrò nel palazzo, e si spinse indisturbata fino al torrione più alto, dove il sole aveva già sconfitto la notte. Nelle stanze c’era confusione, ordini senza padrone rimbalzavano nelle sale gremite di soldati, Spoletta urlò che venisse trovata Tosca, ed uccisa, Scarpia era morto per mano sua.
Un gabbiano, spiccato il primo volo di quel nuovo giorno, vide una donna piangere sul bordo di una torre, e dei soldati impugnare fucili alle sua spalle.
Contemporaneamente –o forse in un ordine casuale che l’uccello non notò, il sole gli feriva gli occhi- vide Tosca cadere, sentì i fucili sparare.

 

Quale Amore sopravvive a tanto odio, non so dirlo. Se quelle due Anime predestinate si siano incontrate in un’altra vita, in un altro tempo, non posso saperlo.
Ma mi è stato chiesto di raccontare la loro storia, di annebbiare il mio cuore e tornare nei sogni del mio passato, prendere i miei tarocchi ed intelaiare le fila di questa vicenda.
Così, ho vissuto i loro amori e pianto le loro sofferenze, per volere vostro, perché voi me lo avete chiesto. E che vi sia piaciuta o no la mia versione dei fatti, io sono solo un messaggero, che porta con sé i papiri in cui è racchiusa una storia sfilacciata nel tempo, tra passato, presente e futuro, senza più logica.

Sidonia